Contagion....un film che raccontava il futuro

di Piero Giuseppe Goletto

Nell’articolo dedicato al coronavirus parlammo di “cultura distopica”. La distopia è un genere fantascientifico, che nasce dai dubbi sul mito del progresso: nessuno sa davvero cosa aspettarsi dal futuro, tant’è che vi sono “presenti” che aspettano il loro futuro, ed altri “presenti” che lo guardano con paura.

E ci sono film, tra gli altri, che ci possono aiutare a capire i significati del presente che stiamo vivendo.

Parliamo di “Contagion” di Steven Soderbergh, che attirò anche l’interesse di Lancet, la più importante rivista scientifica di medicina al mondo.

Trama, molto in sintesi: Beth di ritorno da un viaggio di lavoro a Hong Kong accusa sintomi influenzali marcati che peggiorano portandola alla morte. Stessa sorte colpisce un imprenditore giapponese e un ragazzo cinese. La gente si limita a  filmarli e mettere i filmati in rete. Ma questi stessi filmati e il manifestarsi di altri casi suscitano l’interesse delle autorità. Si sentono le stesse frasi e le stesse domande che si sono sentite in questi giorni: «Dobbiamo avvisare o non avvisare la popolazione? Con la febbre suina abbiamo solo spaventato gente sana!».  «Dobbiamo chiudere le scuole? E chi sta allora a casa con i bambini? E chi lavora nei negozi, o gli impiegati statali?».

Nel film il virus diventa simbolo di una forza malefica che invade il mondo. E’ in qualche modo un “alieno”, che portiamo sulle mani che toccano tutto. Non solo: l’alieno è presente ovunque, in qualsiasi oggetto.

Il virus è fittizio, si chiama MEV-1, ha una mortalità del 25%, i suoi effetti sono modellati su quelli di una forma di influenza suina e su quelli della SARS del 2003. Realistico considerando che il 75% dei patogeni emergenti sono trasmessi dagli animali all’uomo e i virus possono mutare in tempi molto più brevi (talvolta, minuti).

Nei primi due secondi del film, quelli tra i loghi dei distributori e le prime scene, si sentono due colpi di tosse, fuori campo. Matthew Beaumont - University College London fa  in “Imagining the end times: Ideology, the contemporary disaster movie, contagion” (gennaio 2014) un’osservazione che oggi risulta particolarmente rilevante. I colpi di tosse sono per l’autore inglese il segnale dell’intrusione del virus nello spazio che ciascuno di noi accuratamente demarca e protegge anche attraverso le regole che governano la vita collettiva e la nostra suggestionabilità rispetto ai messaggi dei media.

Ciò che manca a questo film non sono tanto gli aspetti più appariscenti (l’isolamento delle zone rosse, le strade deserte, le mascherine), quanto piuttosto l’attesa snervante degli esiti degli esami, la somministrazione delle terapie, lo scorrere lentissimo di giorni sempre uguali vissuti nell’isolamento della propria casa.

Peraltro, il film tenta effettivamente di dare conto dell’esperienza di una pandemia, e si incentra sugli effetti sulle persone e sulla società del contagio (ecco il perché del titolo). Il contagio è una forma di relazione da evitare a ogni costo e pertanto – così come del resto stiamo oggi vivendo – la prima misura consiste in forme di distanziamento o isolamento sociale;  l’ambiente che è interconnesso a causa dell’epidemia e per l’attività dei media e delle istituzioni è frantumato dai posti di blocco, dalle mascherine, dalle tute di protezione.

Il romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda, scritto nel 1954, ha ispirato tre adattamenti e ha visto, con Will Smith, la versione più recente.

Qui, un’epidemia ha trasformato tutto il genere umano, fatta eccezione per Robert Neville, in vampiri.

Di notte Neville lotta per la sopravvivenza, braccato da un’orda di vampiri; di giorno studia e cerca una cura per questa malattia.  Matheson mette in luce i temi della solitudine e dell’isolamento e il tema del dominio.

Richard Mateson, per intenderci, è colui il quale convocato per scrivere la sceneggiatura de “Gli Uccelli” propone a Hitchcock una storia in cui gli uccelli non si vedono, perché in questo modo “fa più paura”.

La vicenda di Robert Neville si svolge in una metropoli e questo fa sì che crolli un sistema di certezze familiari e che il protagonista sia dominato da un presagio di sconfitta e di morte. Pura angoscia.