Mamma mia dammi cento lire, che in America voglio andar…..

di Alessandro Claudio Giordano

 La Merica per i piemontesi ed ancor più per i cuneesi era l’Argentina. Genova rappresentava la partenza verso terre ignote o quasi. I piroscafi che salpavano stracolmi di gente avevano nomi importanti come il “Conte di Biacamano”, il “Duca degli Abruzzi”, ”Duca di Udine”.

Levreri del mare, Mah forse no. Certo è che cosa si sapeva era per una sorta di passaparola continuo scandito dalle lettere di chi si era “sistemato” nella capitale o di chi aveva proseguito per Rosario, Cordoba Santa Fè, dove c’erano appezzamenti di terreno che i nostri, per lo più contadini potevano coltivare. Alcuni di questi  erano semplici braccianti altri esperti nella coltivazione della vite, si portavano le talee di vite per coltivare in quei territori le tipologie che già conoscevano. Fantasia ed una sora di “M’arangiù mi”, “mi arragio io”, tutto era possibile per far sopravvivere il sogno.

Però sin dal 1853 anno di nascita della Repubblica, il governo argentino si impegnò su un progetto statale di colonizzazione agricola che attirò gran parte delle popolazioni europee migranti. I più facoltosi cercavano di acquisire lotti fondiari e diventare mezzadri, gli altri come detto trovare una soluzione alla miseria che avrebbero voluto lasciarsi alle spalle. Nella Provincia di Buenos Aires già dal 1870 un provvedimento assegnava a giovani coppie di agricoltori terreni gratuitamente a condizione che vi costruissero una casa e che li coltivassero. Sino alla legge varata nel 1876 che prevedeva che i territori nazionali venissero divisi in lotti di quarantamila ettari per insediamenti urbani e suburbani, offrendo sia la possibilità di assegnazioni di terreno gratuite, sia pagabili a prezzi molto contenuti. Per gli acquirenti gli unici obblighi erano quelli della residenza e della coltivazione delle terre. Così secondo il censimento del 1895 su un totale di 407.503 proprietari agricoli più di un quarto erano di nazionalità straniera e fra essi moltissimi piemontesi e cuneesi.

Le cronache dell’epoca raccontano che il primo immigrante registrato fu Battista Trovasci, agricoltore, celibe, di quarantanove anni di età, arrivato il 2 gennaio 1882 al porto di Buenos Aires con il vapore Correbo III, di bandiera italiana e proveniente da Genova, che trasportava dodici emigranti. In quegli anni il viaggio era più di una avventura e spesso le condizioni di indigenza della terza classe portavano malattie spesso non potevo essere curate in modo appropriato. I bastimenti che partivano dall’Italia avevano passeggeri di prima e seconda classe. La maggior parte delle persone erano in terza ammassate in un grande spazio aperto sul fondo della nave, dove vivevano in condizioni pietose e prive di igiene fino a novecento persone. Carichi come dei muli (questi poveri disgraziati si portavano sacche, materassi, coperte, sedie pieghevoli; molti erano scalzi e portavano le scarpe appese al collo). Vivevano settimane in condizioni disumane.

Quando arrivavano a Buenos Aires …la delusione era tanta… una città piatta, l’acqua del porto color leone (questo a causa della sedimentazione della terra e della sabbia che il Mar de la Plata porta giù) e tanta fame. Non restava che rimboccarsi le maniche e lavorare. Lavorare tanto dodici anche quattordici ore al giorno. Il problema principale era la lingua. Molti parlavano solo il dialetto, ma seppero creare una comunità diremmo aperta (questo soprattutto a Baires), con gli spagnoli anche loro emigrati una sorta di parlata comune “il lunfardo”, oggi in disuso ma presente nei quartieri de la Boca a maggioranza italiana. L’emigrazione italiana si arrestò in coincidenza con il boom economico degli anni sessanta, quando gli italiani di seconda e terza generazione si erano già ampiamente integrati nel sistema sociale argentino, uscendo dall’angolo cui erano stati costretti. Abbiamo detto Buenos Aires, ma forse sarebbe più appropriato parlare della Pampa e delle regioni Rosario e Cordova dove la mezzadria piemontese e cuneese si è affermata negli anni.

Città nate sulla base dell’immigrazione a maggioranza italiana. Ovviamente oggi la demografia e lo sviluppo anche economico hanno disegnato un paese completamente cambiato rispetto a quello che accolse i primi piemontesi. A città isolate si sono sostituiti complessi agglomerati urbani. Molte città mantengono una maggioranza italiana particolarmente forte. E’ il caso di Monte Maiz, poco lontano da Rosario con il 94% di popolazione con origine italiana.  Ed il paese come si muove? Ecco i numeri: Buenos Aires oggi conta 200.419 abitanti di origine italiana, Rosario 91.923, La Plata 67.390, Cordoba 60.194. Quella in Argentina è stata la migrazione più difficile delle tante. Questo perché si andava verso il nulla con tanta buona volontà e tutto assolutamente precario. Però i cuneesi ed in generale i piemontesi seppero integrarsi bene. E pochi di loro rientrarono in Italia. Resta un tratto indelebile la presenza e la permanenza di quella piemontesità che non demorde mai ed anzi fronte al sacrificio si organizza e cresce. Un esempio eccellente ed attuale a cui guardare anche per far ripartire il nostro di paese.